domenica 25 ottobre 2015

Specchi di pietra alla luce del sole dove poter giocare

Il Nuovo Mattino non è nato in Valle dell'Orco, ma nella mente di alcuni giovani torinesi animati dalle intuizioni di Gian Piero Motti. Provarono a giocare con la storia per renderla più umana.
La Valle è venuta di conseguenza, si potrebbe dire per gemmazione spontanea, perché rappresentava la faccia meno esplorata e meno commerciabile del "granito" (gneiss), perché sposava bene lo spirito ribelle dei ragazzi degli anni settanta con le profonde radici subalpine, perché offriva il terreno ideale per quel patto di alleanza tra l'uomo e la parete che era alla base della filosofia del rinnovamento.

Avventura vuol dire incamminarsi su sentieri sconosciuti a rischio di perdersi. Per paradosso, in quegli anni, c'era più mistero in una placca di gneiss a pochi minuti dall'auto che in una remota parete del Gran Paradiso o del Monte Bianco, retaggio dell'alpinismo eroico e del suo usato e abusato corredo di fatica, sacrificio, santificazione. Era tutto già visto, insomma.
Così agli obblighi sacrificali della lotta coll'alpe, al mito-espiazione delle cime ricoperte di croci, agli abiti grigi della festa andavano sostituendosi vestiti colorati, orari rilassati, allegri bivacchi sugli altopiani, giovani voci di donne, iniziazioni dai nomi emblematici: Tempi Moderni, Itaca nel Sole, Cannabis, Nanchez, Rivoluzione. Per fare questo non servivano guglie sperdute in cima a circhi glaciali o muraglie di roccia tappezzata dal gelo, ma specchi di pietra alla luce del sole dove poter giocare, arrampicare duro, catturare visioni, tirare a sera e trasgredire a volontà.
La fascia rocciosa di Balma Fiorant, ribattezzata Caporal in risposta al mito americano, era il posto ideale: così vicina eppure così lontana , così visibile eppure così selvaggia, così maliarda eppure così sfuggente. Nel mistero di quei muri di pietra argento colorata di giallo dai licheni, in quel vuoto autenticato dal volo dell'aquila, in quel brivido addolcito dal profumo dei larici, c'era l'avventura che i giovani cercavano: sulla porta di casa, in bella vista da sempre, proprio sopra i familiari tornanti di Ceresole, che gli alpinisti torinesi avevano risalito decine e decine di volte per scalare le Levanne, il Courmaon, il Ciarforon e altri pezzi di paradiso. Senza mai alzare la testa.


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La Valle dell'Orco è ormai uno di quei luoghi scolpiti nel mio immaginario: è metro di paragone, pietra miliare, partenza e arrivo di ogni viaggio. Viaggio che spesso oscilla sul filo di una lama sottile, la segreta paura di rendere pubblico il tuo segreto, vero o presunto che sia.
Paura che vadano irrimediabilmente persi quella magia e quel mistero della prima volta, quando Marchino (Zaninetti) ci guidò su per i tornanti del Piantonetto, verso lo scoglio di Mroz, in quella strada tortuosa, aggrovigliata, con i guard-rail masticati dalle valanghe. Alberto ed io: due brufolosi maturandi armati di un paio di friend comprati per l'occasione. E questa nuova parola, "trad", che entrava di prepotenza nei discorsi.
Meglio se nessuno lo viene a sapere, mi dico. Meglio conservare lo status quo; basso profilo, ragazzi.
Da quella volta su Impressioni di Settembre, a.d. 2008, ho imparato un sacco di cose, devo dire. Forse avrei anche meritato qualche schiaffo in più: mi è andata bene (molto bene) in un bivacco non previsto sul Cervino, ho incontrato amici, scalato con compagni vecchi e nuovi, esplorato angoli remoti del Rosa, viaggiato in Nepal e sceso da pendii ripidi con gli sci. Scalato su scogliere a picco sul mare calandomi dall'alto. Battuto traccia con gli sci in spalla e la neve fino alla vita. Ho poi preso due lauree, iniziato a lavorare, andato a vivere da solo, diventato zio e incontrato una gran donna, giusto per finire in bellezza.
Ma non mi stanco mai, la meraviglia per questo posto è sempre la stessa. Quella fretta che ti porta a pigiare di più sull'acceleratore quando leggi 30 chilometri a Ceresole. Quell'infantile magnifica curiosità che ti fa domandare, "Come sarà, questa volta?". Ogni volta.

Questo posto è mio e solo mio, mi dico, quasi deluso quando scopro che qualcun'altro c'è stato.
E pazienza se anche questo weekend si va nei soliti settori del fondovalle, alla Torre Aimonin, su vie già fatte, Pesce d'Aprile e Spigolo. E domenica sempre al Sergent, sulle classiche, Nautilus, Locatelli, Sir Biss. Posti visti e rivisti, di sera, di mattina, primavera estate, autunno...

Vie ormai assunte a simbolo di tempi che furono, quando la Kosterlitz non era imbrigliata nel cemento di una galleria, il prato sconvolto da una titanica ruspa, il camping La Pescheria ordinato e pulito per la vecchia gestione.
Pazienza se per osare avventurarti sulla Disperazione hai setacciato mezza Milano in cerca di friend grossi.
Pazienza se ogni volta il lunedì è più duro, le spalle fanno male, le mani non ne parliamo, e dalle stesse fessure continui a non schiodarti, anno dopo anno.
Pazienza perché questa volta è diverso. Siamo in tanti, come avremmo voluto essere un anno fa, due vermi gelati a ravvibidire davanti ad al fuoco, troppo piccolo per scaldarci anche la schiena.
Stasera il fuoco è grosso, immenso, di quelli da falò estivo. Illumina decine di facce, dai più timidi neo esploratori dell'Orco a navigati abitué di ritorno da Yosemite. Mi guardo intorno e leggo nei sorrisi increspati dalla stanchezza gli stessi miei sogni, una porzione di terra da inseguire, un istante di comunione indissolubile. Orgoglio di effimere quanto intense visioni; metto altra carne sulla griglia, legna nel fuoco e verso bicchieri di vino in giro.
Domani avremo meno tempo per tutto questo, mi ha scritto un carissimo amico il giorno dopo la laurea. Avrà ragione?

Per adesso, comunque, va benissimo così.












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